Cosa non è il perdono
In questa seconda parte continuiamo il percorso iniziato nella prima parte, nella quale ci siamo chiesti che cosa non è il perdono, in modo da lasciar andare idee e convinzioni che possono ostacolarci nella pratica del perdono. Vediamo quindi altri tre aspetti di cosa non è il perdono
4) Il perdono non dipende da ciò che fa l’altro
Molti pensano: “Come posso perdonare se non ci sono state scuse o spiegazioni sul perché quella persona mi ha fatto del male? O addirittura senza che ci sia la consapevolezza dell’altro del danno arrecato?”. Come possiamo perdonare quando sentiamo che la persona non ha fatto nulla per “meritare” il nostro perdono? Da dove iniziamo?
Sì, è certamente più facile offrire perdono quando colui che ha commesso l’azione esprime rimorso e offre una sorta di riparazione, facendoci così sentire in qualche modo riconosciuti e ripagati del dolore subito. Se questa però diventa una condizione necessaria, il perdono che offriamo non è un dono ma uno scambio.
Il vero perdono al contrario è incondizionato, è un vero e proprio dono, che non si aspetta nulla in cambio. È un processo che facciamo dentro di noi. In questo modo chi offre perdono viene immediatamente liberato dal giogo che lo legava alla persona che lo ha ferito. È libero di andare avanti nella vita, di crescere, di non essere più una vittima.
Diverso è invece il caso della riconciliazione, che può essere condizionata a qualcosa che sentiamo di aver bisogno di ricevere dall’altra persona per poter ricominciare una nuova relazione. Ad esempio, se il nostro partner ci è stato infedele, potremmo aver bisogno del suo consenso a intraprendere insieme una psicoterapia di coppia. La persona ferita ha bisogno di rassicurarsi per quanto possibile sul fatto che non sarà ferita di nuovo, e il bisogno che discende da questo è del tutto personale.
Il fatto è che nella nostra cultura occidentale il concetto di perdono spesso è stato legato al concetto di “debito”. Quando in qualche modo ti faccio del male, divento debitore e tu creditore. Ma in questo modo le nostre relazioni con gli altri si riducono a “transazioni”, a scambi.
Sentire di avere questo “credito” nei confronti dell’altro può arrivare a generare in noi un senso di superiorità rispetto all’altro. Possiamo pensare che siamo superiori in quanto noi non ci saremmo mai comportati in quel modo! Potremmo allora decidere inconsciamente di non perdonare per mantenere questo “vantaggio” rispetto all’altro, che potrebbe tornarci utile in futuro, in quanto potremmo usarlo contro di lui.
5) Perdonare non significa necessariamente riconciliarci
Magari abbiamo l’aspettativa che, grazie al nostro perdono, l’altra persona magicamente cambierà in meglio. In questo modo rischiamo di restare ancora vittime dell’altro. La magia non succede all’altro, succede a noi! Il perdono non salva e libera l’altro, ma salva e libera noi stessi. Quello che cambia è il nostro sguardo su quella persona, la nostra comprensione e compassione per quella persona. E quello sguardo rimane, anche se l’altro dovesse tornare ad avere quel comportamento.
Alcuni comprensibilmente sostengono che in ambito buddhista, nonostante se ne parli tanto, il concetto di perdono non esista (vedi a questo riguardo le considerazioni nell’articolo (in Inglese) di Ken McLeod “Il perdono non è buddhista”); che, se proprio vogliamo parlare di perdono in ambito buddhista, sarebbe forse preferibile parlarne in termini di armonia. Non è un caso quindi che, a partire da questa visione, l’approccio è spesso legato alla risoluzione dei conflitti e alla riconciliazione, come avviene anche con il Ricominciare nella tradizione di Thich Nhat Hanh.
Questo ci porta allora a un punto fondamentale: Il perdono è qualcosa di diverso dalla riconciliazione. È un percorso interiore, tra noi e noi, che ci permette di liberare i nostri cuori. È “una sorta di bonifica di un affetto”, come ha definito il perdono in una Condivisione un partecipante a un fine settimana di consapevolezza al Centro Avalokita.
La riconciliazione invece implica la presenza dell’altra persona, è qualcosa che non è solo nelle nostre mani, riguarda anche l’altro. Il perdono è il preludio alla riconciliazione. Solo dopo aver perdonato possiamo darci la mano e costruire qualcosa di nuovo. Oppure no… Infatti, facciamo tutto quanto è in nostro potere per riuscire a sanare e rinnovare la relazione ma, se ciò non fosse possibile, lasciamo andare la relazione e ci muoviamo verso un futuro libero dal passato, verso una nuova vita e un ritorno a chi siamo veramente. Grazie al percorso che abbiamo seguito, infatti, non siamo più la stessa persona che ha subito o commesso quell’errore.
In qualche modo perdonare è un passo preliminare fondamentale affinché possa esserci una vera riconciliazione, un rinnovamento della relazione su basi diverse. Cercare di riconciliarci, ad esempio nella pratica del Ricominciare che ci insegna Thich Nhat Hanh, senza aver prima perdonato l’altro rischia di mantenerci nello stato di vittima, può portarci facilmente a restare nella convinzione di avere ragione, mentre l’altro ha torto.
Il perdono ci conduce invece al di là delle ragioni e dei torti, su un piano di umanità condivisa, che ci permette di imparare entrambi da ciò che è avvenuto e rifondare la relazione su basi nuove oppure, come ultima possibilità e quando questo è possibile, lasciarla andare e continuare a vivere liberi dal peso del passato.
6) Il perdono non sempre è possibile
A volte, sopraffatti dalla rabbia, ci viene da pensare che esistano persone che sono dei mostri, intrinsecamente malvagie, e che non possono essere in alcun modo perdonate.
Certamente esistono atti mostruosi e malvagi, ma non per questo le persone che li commettono possono essere ritenute dei mostri. Il fondamento del perdono è distinguere sempre l’atto dalla persona che lo ha compiuto.
Thich Nhat Hanh lo ha espresso con molta forza, oltre che nella poesia “Promettimi”, nel libro “Nel rifugio della mente”: “L’uomo non è il nostro nemico. Il nostro nemico è l’odio, la rabbia, l’ignoranza e la paura. Le radici del terrorismo non sono da ricercare nelle filosofie religiose o in culture sconosciute, ma nell’incomprensione, nella paura, nella rabbia e nell’odio. I terroristi sono esseri umani che sono malati del virus del terrorismo. Il virus che vedete è fatto di paura, odio e violenza”.
Peraltro, a ben vedere, relegare un essere umano al livello di mostro significa negare la sua capacità di cambiare e togliergli la responsabilità delle sue azioni. Infatti, i cosiddetti mostri per definizione non hanno un senso morale del bene e del male e quindi non possono essere considerati moralmente responsabili.
Illuminante, in tal senso, è la storia di Angulimala che Thich Nhat Hanh ci racconta in questo insegnamento.