Il cuore del perdono
Il perdono è un tema complesso e delicato, che può essere trattato da diverse prospettive, che si integrano tra loro. Sentiamo che la prospettiva sul perdono che la tradizione di Thich Nhat Hanh (e il buddhismo in generale) ci offre ne è in qualche modo il nucleo, appunto il cuore.
Si tratta della visione profonda dell’interessere, dell’interconnessione, del riconoscere che non siamo separati gli uni dagli altri e, in particolare, che ognuno di noi è frutto di infinite cause e condizioni che vengono dal passato, dai nostri antenati, e anche dal presente, dal mondo intorno a noi. Cause e condizioni che hanno reso ognuno ciò che è momento dopo momento, con le proprie qualità salutari, ma anche con la propria debolezza, fragilità e vulnerabilità, che solo la consapevolezza può aiutarci ad accogliere pienamente e trasformare.
In preparazione del ritiro “Il cuore del perdono”, che offriremo al Centro Avalokita tra due settimane, desideriamo condividere alcune delle possibili riflessioni generali sull’argomento, che costituiscono una sorta di preparazione, utili a rispondere ad alcune delle domande che a volte emergono su questo tema. Un modo per sgombrare il campo e fare spazio, liberandoci quanto più possibile dalle nostre idee e malintesi sul perdono, ed essere così liberi di procedere nella pratica del perdono.
Cosa non è il perdono
In particolare, per capire più chiaramente cos’è il perdono, può essere utile avere chiaro cosa non è il perdono, in modo da lasciar andare idee e convinzioni che possono ostacolarci nella pratica del perdono:
1) Perdonare non è segno di debolezza
Il Mahatma Gandhi diceva: “Il debole non può mai perdonare. Il perdono è una qualità di una persona forte”.
Ammiriamo e stimiamo coloro che trovano nel cuore il coraggio di perdonare, anche quando sono stati traditi, truffati, derubati o peggio ancora. Ci sono storie incredibili di perdono, ad esempio di genitori che sono capaci di perdonare la persona che ha ucciso il loro figlio.
Non serve andare lontano nel tempo e nello spazio, ad esempio nel 2019 è stato ucciso un carabiniere vicino San Severo, in Puglia, e la sorella ha detto: “Il dolore è troppo grande e noi pensiamo soltanto a Vincenzo che non c’è più. È normale sperare che venga fatta giustizia, ma non ho la forza di scagliarmi contro questo assassino. Voglio Dio nel cuore: il perdono è fondamentale. Perché siamo tutti poveri cristi, siamo carne da macello qui al Sud”, riuscendo a percepire un senso di umanità condivisa anche nei confronti di chi aveva ucciso suo fratello.
Le esperienze di queste persone e le loro azioni possono aiutarci a comprendere come il perdono sia un atto di forza piuttosto che di debolezza. Tenendo sempre presente che la forza è qualcosa di diverso dalla durezza, che aprirci e accogliere la nostra personale vulnerabilità e fragilità è un vero e proprio atto di coraggio e di forza.
2) Il perdono non è un sovvertimento della giustizia
C’è chi crede che possa essere fatta giustizia per un’ingiustizia subita solo quando qualcuno è costretto a pagare per il danno che ha causato. Chi pensa così ritiene che il perdono sovverta il corso della giustizia. A ben vedere, le persone che hanno commesso quegli atti vivranno sempre con le conseguenze delle proprie azioni.
Questo peraltro apre un capitolo importante. Siamo anche convinti che si possa cambiare qualcuno solo punendolo duramente. Ma è scientificamente provato che la punizione non funziona, non porta alcun cambiamento.
Un esempio in tal senso sono le carceri del nord-Europa (Norvegia, Danimarca e Svezia in particolare), nelle quali i detenuti vengono fatti vivere in situazioni di normale vita quotidiana e poi aiutati da un tutor quando tornano in libertà.
Nelle parole del direttore di un carcere norvegese: “Secondo la legge, essere mandati in prigione non significa affatto mettere qualcuno in un luogo terribile, in cui i detenuti vengono fatti soffrire. La punizione è “solo” la perdita della libertà (necessaria per impedire che nell’immediato quell’atto dannoso possa ripetersi). Se in prigione si trattano i detenuti come animali, è probabile che si comporteranno come animali anche quando ne usciranno. Qui ci rivolgiamo a ognuno di loro come a un essere umano. La filosofia del carcere è di insegnare il rispetto di sé e degli altri”. Una buona notizia! Il risultato è che meno del 30% di chi esce da quelle carceri torna a commettere un crimine, mentre in Italia siamo circa al 70%…
Nel suo libro “The Art of Forgiveness, Lovingkindness, and Peace”, Jack Kornfield racconta questa incredibile storia vera: “Nella tribù Babemba del Sudafrica, quando una persona agisce in modo irresponsabile o ingiusto, viene posta al centro del villaggio. Ogni lavoro nel villaggio cessa, tutti gli uomini, le donne e i bambini del villaggio si riuniscono in un grande cerchio intorno alla persona che ha compiuto quell’azione. Poi, uno alla volta, tutti parlano all’accusato, ricordando le cose buone che la persona al centro del cerchio ha fatto nella propria vita. Viene raccontato ogni episodio, ogni esperienza viene ricordata con precisione e in ogni dettaglio. Tutte le qualità positive di quella persona, le buone azioni, i punti di forza e la gentilezza vengono raccontati con cura e a lungo. Questa cerimonia tribale spesso dura diversi giorni. Alla fine, il cerchio tribale viene rotto, ha luogo un festeggiamento gioioso e la persona viene simbolicamente e letteralmente riaccolta nella tribù”.[1]
[1] Vedi ad esempio qui: https://www.mihaelaplugarasu.com/ubuntu-shared-humanity-lessons-from-africa/
3) Perdonare non significa dimenticare o non onorare la sofferenza subita
Anzitutto, perdonare non significa neanche che, ad esempio, non ci arrabbiamo. Siamo arrabbiati e non neghiamo la nostra rabbia, ma possiamo accoglierla e procedere ugualmente sulla via del perdono.
Alcuni trovano difficile perdonare perché credono che significhi dimenticare il dolore che hanno sofferto. In verità perdonare non significa dimenticare il danno subito, non significa negarlo, fingere che non sia mai accaduto o che non sia stato così grave come in realtà è stato. Piuttosto è vero il contrario: il processo del perdono può essere avviato e completato solo in presenza di una assoluta e onesta verità.
Perdonare non significa tradire noi stessi o coloro che sono stati danneggiati. Perdonare non giustifica un atto. Il perdono non solleva qualcuno dalla responsabilità per ciò che ha fatto. Non si tratta di chiudere un occhio o addirittura di porgere l’altra guancia. Su questo un bel contributo di Daniel Lumera:[2] “‘Porgi l’altra guancia’ non significa invitare l’altro a continuare a farci del male, significa porgere l’altro aspetto di noi stessi davanti a quella situazione, il nostro lato consapevole, la nostra chiarezza”.
Quando perdoniamo c’è sempre il rischio che non tutto andrà per il meglio. Così come facciamo un salto nel vuoto, un atto di fiducia quando ci impegniamo ad amare qualcuno e a condividere la vita, facciamo lo stesso tipo di salto quando ci impegniamo in una pratica di perdono. Non ci dimentichiamo e non neghiamo che siamo sempre vulnerabili e possiamo essere nuovamente feriti, ma saltiamo comunque.
(segue nella seconda parte)
[2] https://youtu.be/FTmiMeVw8nM?si=6ARk0KVxCFHODvCb