“La pratica non mi chiede di essere esemplare, non mi chiede di essere eroica, non mi chiede di tendere a niente di ideale, non cancella, non acuisce, sta. Con me. Imparare a stare. Imparare a essere vasti e navigare ogni mare e scoprire tra onda e onda un porto. Provvisorio, rischioso, eppure proprio per questo affidabile, perché reale.” (Chandra Livia Candiani: "Il silenzio è cosa viva", Einaudi 2018)
Meditazione come stato e come processo
Il termine “meditazione” traduce la parola sanscrita “dhyana”, che designa l’esperienza di un ben preciso stato dell’essere, uno stato di presenza liberata e aperta, che nell’insegnamento di Thich Nhat Hanh è considerato la condizione di base della nostra mente, e viene indicato a volte come la nostra “vera natura”. In origine, quindi, non esisteva il verbo “meditare”, visto che il sostantivo dhyana non designava un’attività quanto piuttosto uno stato mentale, nel quale possiamo venire a trovarci oppure no, e che quindi non può essere coltivato in modo attivo ma soltanto in qualche modo “riscoperto”. In tal senso, è uno stato che si nutre di silenzio.
Allo stesso tempo, sebbene questo stato mentale sia fondamentalmente sempre a nostra disposizione, per poterne fare esperienza, specialmente all’inizio (ma non solo) può essere di grande aiuto seguire alcune indicazioni che ci guidino in quello che possiamo chiamare il “processo della meditazione”, e cioè una sequenza di esercizi che gradualmente ci conducano all’esperienza dello stato meditativo: è necessario esercitarci in modo da rilassare il corpo, accrescere la consapevolezza, stabilizzare e aprire la mente. Oltre che accompagnarci nel processo della meditazione, questi esercizi possono fin da subito avere un effetto diretto salutare su corpo e mente, e aiutarci a vivere la quotidianità con maggiore chiarezza, stabilità e compassione.
Il senso delle meditazione guidate
In un percorso in cui l’enfasi è sul “sentire”, sul fare un’esperienza, senza alcuno sforzo intellettuale, in modo che quelle indicazioni possano “aggirano” la sfera del pensiero analitico, per depositarsi direttamente nel corpo, nel percepire, nell’essere semplicemente consapevoli di ciò che mano a mano si manifesta nel nostro organismo.
La meditazione non è qualcosa da fare
In tal senso è fondamentale aver cura che le indicazioni delle meditazioni guidate non si trasformino in un ostacolo. Infatti, quando nella vita quotidiana si parla di “indicazioni”, in genere a queste si associa un obiettivo, e con questo l’idea che esista un modo giusto e uno sbagliato di fare qualcosa. Anche nella pratica della meditazione potremmo allora coltivare l’idea di dover eseguire le indicazioni che riceviamo “correttamente”, alla perfezione, imponendoci traguardi “elevati” e sperimentando di conseguenza un senso di inadeguatezza, se non addirittura di colpa, se sentiamo di non meditare abbastanza spesso, di non farlo abbastanza bene, di non essere un meditante ideale! Potremmo anche sforzarci troppo e diventare intolleranti nei confronti dei pensieri e delle emozioni che inevitabilmente si manifestano nella meditazione, fino a provarne magari un senso di vergogna e arrivare inevitabilmente ad abbandonare la pratica, dicendoci: “Sì, ho provato la meditazione, ma nel mio caso non ha funzionato, non fa per me… Non riuscivo a farla bene… La mia mente non si calmava”. Tutto questo nella convinzione fuorviante che, anziché uno stato dell’essere, la meditazione sia un’attività come tutte le altre che svolgiamo ogni giorno, qualcosa da “fare”, qualcosa che dobbiamo “imparare” a fare, qualcosa in cui “riuscire”.
Trovare un equilibrio tra il seguire le indicazioni e la nostra esperienza del momento
E’ quindi fondamentale trovare un equilibrio tra seguire le indicazioni della meditazione guidata e, allo stesso tempo, accogliere e lasciare che corpo e mente siano così come sono momento per momento. Potranno inevitabilmente manifestarsi momenti di conflitto interiore, dubbi e desideri, ma anche stati di pace, intuizioni profonde e profondi cambiamenti interiori. Lasciamoci la libertà di fare la nostra personale esperienza, lasciando andare l’idea di dover seguire perfettamente le indicazioni per ottenerne alla fine qualcosa in cambio.
Piuttosto che seguirle in modo passivo, possiamo essere attivi nei confronti delle indicazioni che riceviamo nelle meditazioni guidate. Se ad esempio siamo invitati a seguire i movimenti spontanei del respiro nell’addome e ci rendiamo conto che al momento sentiamo più chiaramente il respiro nel petto, seguiamolo lì dove avviene in modo naturale.
Oppure, se l’indicazione che riceviamo è: “Quando la mente vaga, riporta delicatamente l’attenzione al respiro” ma in quel momento siamo affollati di pensieri, piuttosto che lottare per riportare l’attenzione al respiro, diamo un po’ di spazio a quei pensieri, accogliamoli senza combattere e, quando ci sentiamo pronti, torniamo al respiro. E’ come portare a spasso un cagnolino con un guinzaglio estensibile, allungandolo e accorciandolo con gentilezza, evitando di “strattonare” la mente e i suoi movimenti naturali. E’ fondamentale che le indicazioni che riceviamo non diano vita a una lotta interiore.
Durante la meditazione tutto quello che succede va bene
Possiamo seguire le indicazioni che riceviamo come una sorta di corrimano a cui appoggiarci con delicatezza, continuando però a camminare con le nostre gambe! Un sentiero tracciato a cui tornare ogni volta che ne sentiamo il bisogno, specialmente all’inizio della nostra esperienza con la meditazione. Lasciando che allo stesso tempo corpo e mente siano così come sono, momento dopo momento, accogliendo con fiducia, gentilezza e amicizia tutto ciò che si manifesta (pensieri, emozioni e così via) durante il tempo della meditazione.
Durante una seduta di meditazione, infatti, tutto quello che succede va bene: provare sonnolenza, pianificare un viaggio, preoccuparsi di una relazione, fantasticare, sognare ad occhi aperti, risolvere problemi, qualsiasi cosa. Ovunque vada la mente, qualsiasi cosa emerga, va bene. Se per un lungo periodo di tempo ci dimentichiamo del respiro, va bene lo stesso.
Qualche tempo fa un’amica ci raccontava di aver imparato a premiare, piuttosto che rimproverare, il suo cagnolino ogni volta che ritornava da lei dopo essersi allontanato, magari di parecchio, durante le passeggiate che facevano insieme nel bosco. Allo stesso modo, possiamo festeggiare ogni momento di presenza in cui ci accorgiamo di esserci persi nei pensieri. In questo modo ci verrà spontaneo e naturale riportare l’attenzione sul respiro… fino al prossimo pensiero.
Fare amicizia con noi stessi
L’intenzione che portiamo nella meditazione è di abbandonare qualsiasi lotta, anche quella che a volte emerge nel voler riportare l’attenzione al respiro, quando ci accorgiamo che stiamo pensando. L’intenzione è di accogliere la nostra esperienza, qualunque essa sia. Anche perché, finché non ci sarà una reale accoglienza dei pensieri e delle emozioni che inevitabilmente emergono nella meditazione, non riusciremo a fare mentalmente un passo indietro e prendere una distanza dai quei pensieri ed emozioni, riconoscendo che sono solo una parte, mutevole e impermanente, della nostra esperienza. Grazie a quell’accoglienza, paradossalmente, pensieri ed emozioni avranno lo spazio per calmarsi e svanire sullo sfondo.
Si tratta di un modo di praticare dolce e aperto, che si fonda sull’invito del Buddha a coltivare l’intenzione di non nuocere e non uccidere, che in questo contesto possiamo tradurre nell’essere gentili e amichevoli con noi stessi; nella fiducia che grazie a queste qualità (e non a una dura disciplina e a un grande sforzo!) in noi potrà avvenire in modo spontaneo una trasformazione.
Molto semplicemente, si tratta solo di stare in modo aperto e accogliente con la nostra esperienza, con tutto ciò che sperimentiamo durante la meditazione e, grazie a questo, fare amicizia con noi stessi, che è il senso stesso della meditazione e, in alcune tradizioni, la traduzione della parola stessa.
Non dimenticando mai che, diversamente da qualsiasi altro aspetto nella vita, nella meditazione non c’è modo di sbagliare!