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Accrescere in noi la capacità di far fronte al disagio

"Fai ciò che è facile e la tua vita diventerà difficile. Fai ciò che è difficile e la tua vita diventerà facile." (Les Brown)

Perché pratichiamo?

Cosa ci spinge a praticare? Con quale motivazione ci sediamo in meditazione o andiamo a fare una meditazione camminata?

Che ne dite di prendervi qualche momento prima di rispondere? Vi invitiamo poi a farlo con grande onestà e sincerità, se possibile lasciando andare l’idea di dover dare la risposta “giusta”, quella che sta sui manuali. Possiamo metterci in contatto con la motivazione profonda che ci spinge sul percorso della pratica. Molto probabilmente ci saranno più motivazioni che si sovrappongono, ma ugualmente prima di continuare a leggere vi invitiamo a sentire, a riconoscere qual è la vostra motivazione principale, qualunque essa sia.

(…)

Questa domanda è stata posta durante un ritiro a cui abbiamo partecipato qui al Centro Avalokita, e queste sono alcune delle risposte che sono state date: per offrirmi un nutrimento… per calmare corpo e pensieri… per entrare in contatto con la mia natura più profonda… per portare uno stato mentale positivo nella mia giornata… per fermarmi… per riunire mente e corpo… per includere me stessa nel mio amore… per essere in contatto, includere e comprendere, accogliere…

Lo slittamento del problema

In queste risposte, tutte significative e condivisibili, emerge un comprensibile desiderio di benessere: in genere ci avviciniamo alla pratica per stare bene, per superare momenti di difficoltà nella nostra vita, per trasformare aspetti di noi stessi che ci mettono in difficoltà da sempre. E la pratica molto spesso ci aiuta, dà sollievo al disagio che proviamo. Anche se i modi in cui questo avviene non sono sempre una via diretta ben asfaltata, quanto piuttosto un’avventura fuoristrada, in cui attraversiamo alti e bassi, momenti di esaltazione e momenti di disagio. Come possiamo metterci in relazione in modo costruttivo con questi momenti di disagio, che sembrano mettere in discussione il nostro percorso di pratica?

Uno psicologo di Harvard, David Levari, ha recentemente coniato l’espressione “problem creep” (che possiamo forse tradurre con “slittamento del problema”) per descrivere un fenomeno che sperimentiamo tutti, anche in contesti molto semplici. Ad esempio, quando acquistiamo un’auto ci sembra che il suo equipaggiamento sia quanto di meglio potremo mai desiderare, ma dopo qualche anno, salendo magari sull’auto più nuova di un amico, l’equipaggiamento e le prestazioni della nostra ci sembrano del tutto obsolete.

David Levari ha fatto molti esperimenti su questo fenomeno. In uno di questi, ad esempio, in una prima fase ha chiesto a un gruppo di persone di identificare, in una sequenza di immagini di volti, quali di questi percepissero come minacciosi. Dopodiché tutti i volti percepiti come minacciosi sono stati eliminati dalla sequenza delle immagini presentate e l’esperimento è stato ripetuto con la nuova sequenza di immagini, con l’aspettativa che a quel punto tutti i volti sarebbero stati percepiti come amichevoli. Sorprendentemente però i partecipanti all’esperimento hanno segnalato come minacciosi volti precedentemente non percepiti come tali, evidentemente ampliando la propria definizione di cosa fosse un volto minaccioso.

Resilienza

Esperimenti di questo tipo suggeriscono che quando sperimentiamo meno problemi non siamo necessariamente più appagati, ma semplicemente abbassiamo la soglia di ciò che consideriamo un problema. Ci ritroviamo così con lo stesso numero di problemi! Solo che i nostri nuovi problemi sono progressivamente meno significativi. In questo modo lo stress che percepiamo ci confina in zone di comfort sempre più ristrette, lasciandoci lo stesso livello di insoddisfazione.

Si capisce allora che il modo per diminuire il nostro disagio non è eliminare o quanto meno diminuire ciò che ci mette in difficoltà, ma far crescere in noi una sempre maggiore capacità di far fronte al disagio, ciò che viene ai nostri giorni chiamato resilienza. Qualcosa che il nostro organismo è assolutamente in grado di realizzare, tramite il processo che viene chiamato “ormesi”, che ad esempio è alla base dell’efficacia dell’omeopatia o, più in generale, il motivo per cui ricevere una piccola quantità di una tossina costruisce una difesa, un’immunità. E’ anche il modo in cui i nostri muscoli rispondono allo stress di sollevare pesi diventando più forti.

La meditazione può a volte essere scomoda

La meditazione, e la pratica in generale, ci offre un contesto ideale e protetto per affrontare il disagio, per far fronte in modo costruttivo allo stress e accrescere così la nostra resilienza. Dopotutto, nonostante le immagini di tranquilli meditanti con sorrisi beati che sembrano abbellire la copertina di alcune riviste, la meditazione non è sempre beatitudine. È piuttosto l’attività di stare seduti eretti e aperti in mezzo a qualsiasi cosa si presenti. Certo, può portarci tanta gioia, ma può anche lasciar emergere ansia, disagio e dolore.

Vediamo due delle tante ragioni per cui la meditazione può essere così scomoda:

  • La meditazione ci invita a fare qualcosa di contrario a ciò per cui in qualche modo siamo stati programmati: essere produttivi. Jon Kabat-Zinn scrive: “La meditazione è diversa da tutte le altre attività umane. Anche se richiede un certo tipo di impegno ed energia, in definitiva si fonda sul non-fare”. Qui si apre un capitolo importante, che potremo approfondire in futuro, sull’atteggiamento con cui ci mettiamo in contatto con la pratica, come qualcosa da fare e da cui possibilmente ottenere un risultato, una modalità che costituisce uno dei più grandi ostacoli.
  • Un’altra possibile ragione è che abbiamo paura di rallentare e confrontarci con noi stessi, spesso percepiamo che in noi c’è qualcosa di non visto, di non guarito, qualcosa di sgradevole con cui potremmo entrare in contatto. Piuttosto che sederci a meditare, meglio allora navigare su internet o vedere una serie tv, perché queste attività ci distraggono da ciò a cui potrebbe esporci una nuda consapevolezza.

Abbiamo sentito questo tema come un approfondimento della meditazione sull’accogliere le sensazioni nel corpo, in cui l’attenzione che prestiamo a queste sensazioni consente al corpo, con i suoi tempi, di sciogliere e liberare tensioni accumulate nel tempo. Consapevoli che portando l’attenzione al corpo possono emergere, cosa del tutto naturale e comune, sensazioni inattese, intense, sgradevoli.

Fare amicizia, momento dopo momento, con ciò che sperimentiamo

La riflessione di oggi può forse darci una diversa prospettiva rispetto al disagio che praticando a volte emerge in noi, e che magari ci fa provare frustrazione o addirittura un senso di inadeguatezza. Un disagio che invece può permetterci, nel tempo, di essere sempre più a nostro agio con qualsiasi cosa si manifesti in noi.

La meditazione non ha lo scopo (semmai ne ha uno) di svuotare la mente, ci permette invece di percepire e accogliere ogni sensazione che si manifesta nel momento presente, qualunque essa sia. È bene dunque liberarci dall’idea, semmai l’abbiamo avuta, di sederci passivamente per raggiungere la beatitudine, praticando invece in modo attivo per sintonizzarci su quella che è momento per momento la nostra esperienza.

Durante la pratica possiamo affidare ogni eventuale disagio al ripetersi regolare e affidabile del respiro e all’apertura della postura, eretta e rilassata, che creano in noi uno spazio in cui tutto ciò che emerge può essere accolto con crescente benevolenza. Per ampliare questo spazio di accoglienza possiamo sederci anche quando non ne abbiamo tanta voglia, perché magari è allora che emerge qualche piccolo disagio, che possiamo esercitarci ad accogliere e abbracciare, proprio come – nella parole di Thich Nhat Hanh – una mamma abbraccia il proprio bambino che piange.

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Il modo per diminuire il nostro disagio non è eliminare o quanto meno diminuire ciò che ci mette in difficoltà, ma far crescere in noi una sempre maggiore capacità di far fronte al disagio, ciò che viene ai nostri giorni chiamato resilienza. Qualcosa che il nostro organismo è assolutamente in grado di realizzare, tramite il processo che viene chiamato “ormesi”.

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